Marina Abramović è un’artista serba, considerata una delle figure più significative della performance art contemporanea. La sua carriera si è sviluppata in questo ambito esplorando i limiti del corpo, della mente e dell’interazione con il pubblico. La sua arte è un’esperienza totalizzante, che mette in discussione il ruolo dell’artista e dello spettatore, sfidando la resistenza fisica ed emotiva.

La recente mostra a Bergamo

A distanza di un anno dalla precedente, si è svolta a Bergamo, allo spazio espositivo gres art 671 sito al quartiere Colognola, la nuova mostra di Marina Abramović, intitolata Between Breath and Fire.
L’esposizione è stata aperta al pubblico dal 14 settembre 2024 al 16 febbraio 2025 e sarà ancora eccezionalmente visitabile il 22 e 23 febbraio. Curata da Karol Winiarczyk, la mostra ha voluto celebrare la passione di Marina Abramović per l’opera lirica, in particolare per Maria Callas, con installazioni che si mescolano all’ambiente circostante. L’approccio multidisciplinare ha creato un’esperienza totalizzante per il pubblico, in cui la performance si è fusa con l’arte visiva e l’installazione sonora.

Seven Deaths of Maria Callas

Un’opera centrale dell’esposizione è stata Seven Deaths of Maria Callas (2020), proiettata per la prima volta in occasione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, che ha visto al suo interno la partecipazione di un mostro sacro delle scene come Willem Dafoe nel ruolo dell’assassino.

Si è trattato di un’installazione cinematografica immersiva che ha esplorato la morte di sette eroine tragiche della lirica, accompagnate e rese immortali grazie al sottofondo musicale di arie della divina Maria Callas. «Voglio mettere in scena le morti di sette opere che Maria Callas ha interpretato prima di me. In molte scene, la figura dell’opera non muore da sola, ma viene uccisa da un uomo» ha commentato Abramovic.

Grazie ai costumi di Riccardo Tisci, della Maison Burberry, che ha progettato gli abiti in collaborazione con l’artista, sono rivissute nel corpo e nei movimenti della Abramović, Tosca, Norma e Carmen (dalle omonime opere), Violetta (da La Traviata), Cio-Cio-San (in Madama Butterfly), Lucia (dalla Lucia di Lammermoor) e Desdemona (dall’Otello).

Oltre a questa performance, la mostra ha anche presentato più di trenta opere dell’artista – da quelle storiche alle più recenti performance interattive – offrendo una panoramica completa della duratura carriera artistica della Abramović.

L’allestimento, oltre che negli spazi interni, si è esteso anche a quelli esterni del gres art 671, con l’integrazione d’installazioni sonore come Tree (Belgrado, 1972), che hanno diffuso canti di uccelli tra gli alberi, portando lo spettatore in una zona grigia al confine tra il naturale e l’artificiale, esplorando la connessione tra tecnologie immersive, suono, cinema e performance in un unico spazio.

Marina Abramović, Seven Deaths of Maria Callas [Moamoa22, CC BY-SA 4.0, Wikimedia Commons]

Marina Abramović. La sua storia artistica e il ruolo delle donne della sua famiglia

Abramović, nata il 30 novembre 1946 a Belgrado, è cresciuta in un contesto familiare difficile. Entrambi i genitori erano partigiani ed esponenti graduati dell’esercito comunista di Tito e, per questo, ha vissuto un’infanzia influenzata da una rigida disciplina. Ha sviluppato la sua passione per l’arte tra le mura domestiche grazie alla spinta e all’incoraggiamento da parte di entrambi i genitori.

Anche la nonna materna è stata una figura significativa per la giovane artista, che Marina ha descritto come una persona di grande forza e determinazione. La nonna ha avuto un ruolo fondamentale nell’insegnarle il concetto di resilienza e nel trasmetterle l’idea di sopravvivenza, topos che sarebbero diventati un tema ricorrente nel suo lavoro.

È chiaro quindi che la figura materna e quella della nonna hanno contribuito a formare la sua visione del mondo e della sua arte, influenzando la sua percezione della durezza della vita e della necessità di affrontarla con forza. Marina Abramović ha parlato spesso del legame speciale con le donne della sua famiglia, ed è stato attraverso queste figure femminili che ha imparato a resistere e a sfidare le difficoltà.

La sua formazione artistica è iniziata all’Accademia di Belle Arti di Belgrado, dove si è laureata nel 1970. Subito dopo si è trasferita ad Amsterdam dove si è avvicinata ad altri pionieri dell’arte concettuale e performativa. Nel corso della sua carriera, Abramović ha sperimentato e messo alla prova i confini del corpo umano, del dolore e delle emozioni, creando opere che spingono lo spettatore a riflettere sul concetto di tempo, energia e vulnerabilità.

Marina Abramović nel 2010 [Manfred Werner / Tsui, CC BY-SA 3.0, Wikimedia Commons]

Il corpo come strumento artistico

Dagli anni 70 del Novecento, Abramović ha utilizzato il proprio corpo come mezzo espressivo. Tra le sue prime performance più celebri troviamo Rhythm 10 (1973), in cui l’artista ha usato dieci coltelli facendoli scivolare velocemente tra le sue dita, in modo tale da riprodurre il movimento in modo rapido e preciso. Ogni volta che sbagliava, registrava il suono del coltello caduto, continuando così a ripetere l’azione fino ad arrivare a una perdita di controllo. Quest’opera ha segnato l’inizio dell’uso del corpo come strumento principale della sua arte.

Altre opere di Marina Abramović

Rhythm 0 (1974), invece, è una performance in cui si è offerta passivamente al pubblico e immobile per 6 ore, mettendo a disposizione 72 oggetti (tra cui una rosa, delle forbici e una pistola carica) per testare i limiti dell’interazione umana. L’esperimento ha rivelato quanto rapidamente la società possa degenerare in violenza quando il potere è lasciato senza regole. Negli anni successivi, ha lavorato con il partner e artista tedesco Ulay, con cui ha realizzato opere incentrate sulla dualità e sul rapporto tra corpi. Tra queste c’è Imponderabilia (1977) una performance in cui Abramović e Ulay si mettevano uno di fronte all’altro, nudi, in un corridoio stretto, invitando il pubblico a passare tra di loro. Il lavoro esplorava l’intimità, la privacy e l’imbarazzo.

Rhythm 0 [Marc Wathieu, CC BY 2.0, Flickr]

Il legame con Ulay

Un’altra opera che ha sancito il loro legame affettivo e artistico è Rest Energy (1980), dove Ulay tendeva una freccia verso il cuore di Abramović. I due si trovavano in una posizione estremamente pericolosa, in quanto mettevano in gioco la fiducia reciproca e l’idea di “restare” nell’energia che li univa.

Rest Energy (1980), foto fatta alla mostra a Bergamo Foto © Mariaelena Mancini

Nightsea Crossing (1981-1987), invece, è una serie di performance in cui la coppia si è confrontata fisicamente ed emotivamente in una serie di incontri silenziosi e prolungati. I due artisti sono rimasti seduti l’uno di fronte all’altro per lunghe ore senza comunicare verbalmente, ma cercando di stabilire una connessione non verbale. Hanno esplorato la solitudine e la comunicazione attraverso il silenzio e la percezione dell’altro.

Il loro addio simbolico, con la performance The Lovers (1988), in cui i due hanno camminato per tre mesi lungo la Grande Muraglia Cinese per incontrarsi a metà e separarsi definitivamente, rimane una delle più struggenti della storia dell’arte.

Il libro 3 performance [Marina Abramović og Ulay. Af Ukendt/CODA Museum. CC BY 3.0]

Marina Abramović dopo Ulay

Dopo la separazione da Ulay, Abramović ha continuato a lavorare da sola, guadagnando una notorietà sempre maggiore. In Cleaning the Mirror (1995) Abramović si pulisce e strofina costantemente con uno specchio, cercando di rimuovere simbolicamente qualsiasi segno di impurità o di contaminazione. È una riflessione sul corpo e sull’autocensura, un atto che diventa un processo rituale.

In Balkan Baroque (1997), durante la Biennale di Venezia, Abramović ha lavato migliaia di ossa di bovino, come metafora della violenza e del conflitto nei Balcani, in particolare in relazione alla guerra in Jugoslavia.

Balkan Baroque (1997) [Francesco Pierantoni from Bologna, Italy, CC BY 2.0, Wikimedia Commons]
The House with the Ocean View (2002), ha visto Abramović vivere in una stanza sopraelevata al Sean Kelly Gallery di New York, senza parlare, mangiare o bere, mentre il pubblico poteva guardarla ogni giorno. La performance metteva in evidenza la sua solitudine e la resistenza fisica, creando una situazione in cui l’artista e il pubblico condividono lo spazio senza alcuna interazione verbale.

The House with the Ocean View (2002) – Modellino della casa alla mostra di Bergamo, in cui Marina Abramovic digiunò per 12 giorni Foto © Mariaelena Mancini

Le rappresentazioni al MoMA e a Londra

Nel 2010, Abramović ha realizzato una delle sue rappresentazioni più iconiche al MoMA di New York: The Artist is Present. Per più di settecento ore, è rimasta seduta immobile, in silenzio, fissando negli occhi chiunque si sedesse di fronte a lei. L’opera ha esplorato la connessione emotiva e la presenza dell’artista come esperienza di trasformazione. Questa ha avuto un forte impatto emotivo sul pubblico, con molte persone che si sono commosse fino alle lacrime. Il ritorno di Ulay, che si è seduto davanti a lei dopo anni di separazione, è diventato uno dei momenti più memorabili della performance.

Nel 2014, Abramović ha presentato 512 Hours alla Serpentine Gallery di Londra. Essa ha coinvolto il pubblico in modo ancora più diretto rispetto a The Artist is Present, poiché gli spettatori venivano invitati a partecipare, ma non avevano alcuna indicazione su cosa fare. La comunicazione tra l’artista e il pubblico era completamente non verbale e la performance si concentrava sul concetto di tempo e spazio, esplorando la meditazione, la concentrazione e l’energia condivisa tra l’artista e i partecipanti.

Le nuove ricerche

Marina Abramović ha sfidato i confini fisici ed emotivi con ogni performance, spingendo lo spettatore a interrogarsi sulla propria relazione con l’arte, il corpo e le sue fragilità. Le sue opere spesso implicano sacrificio, rischio, resistenza fisica e mentale. Il corpo diventa una sorta di “veicolo” per esplorare emozioni estreme, la spiritualità e la relazione tra l’artista e lo spettatore. Il concetto di “presenza” è centrale, dove il tempo e la durata dell’azione diventano un elemento chiave.

Queste performance sono diventate fondamentali per l’evoluzione dell’arte contemporanea e sono spesso considerate vere e proprie meditazioni sul significato dell’esistenza. Marina Abramović ha integrato anche l’AI (dall’acronimo di Artificial Intelligence) nelle sue opere, assieme alla realtà mista, esplorando nuove dimensioni dell’arte.

[ONU Donne, CC BY-NC-ND 2.0, Flickr]

Le performance più significative

Tra le più significative in questo ambito si trova The Life (2019), presentata alla Serpentine Galleries di Londra, dove ha unito spazio fisico e virtuale. I visitatori indossavano dispositivi speciali per interagire con una rappresentazione digitale dell’artista, creando così un’ulteriore esperienza immersiva.

In Rising, nello stesso anno, ha esplorato la realtà virtuale per sensibilizzare l’osservatore sul cambiamento climatico. I presenti, con indosso visori VR, sono stati immersi in un ambiente che riproduceva l’innalzamento dei livelli del mare, stimolando una riflessione profonda sul tema. Negli ultimi anni, ha approfondito ulteriormente il rapporto tra arte e spiritualità.

Con An Artist’s Life Manifesto del 2020, per esempio, ha raccontato il suo concetto di vita e di arte, con una disamina della propria identità attraverso il tempo e la memoria, con riflessioni sul corpo, la spiritualità e l’esperienza dell’artista nella società.

La sua mostra Estasi del 2023-2024 a Bergamo, ha indagato la connessione tra la performance art e il misticismo cristiano, ispirandosi alle visioni di Santa Teresa d’Avila. L’opera centrale, The Kitchen. Homage to Saint Therese (2009), ha rappresentato la fusione tra corpo e anima, tra sofferenza e trascendenza.

Marina Abramović. The Cleaner [Francesco Pierantoni, CC BY 2.0, Flickr]

Eredità artistica

Marina Abramović ha ridefinito il concetto di performance art, ispirando generazioni di artisti, performer e registi. L’artista continua a essere una figura controversa e affascinante, capace di provocare e far riflettere non solo il mondo dell’arte, ma anche la cultura popolare. Nel 2012 ha fondato il Marina Abramović Institute (MAI) ad Hudson, a New York, firmato dallo studio Oma, dedicato alla performance e all’arte immateriale.

Abramović non ha mai smesso di oltrepassare i confini, dimostrando che l’esperienza artistica può essere un viaggio interiore, un atto di resistenza e una porta verso la trasformazione. Ha introdotto nella performance un senso di ritualità, di sacrificio e di interazione emotiva che ha cambiato per sempre il modo di concepire l’arte contemporanea.

“Quando arrivo al limite della resistenza mi sento incredibilmente viva” 

 

Alessandro Rossi
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