Fino al 27 febbraio Fondazione Prada presenta la mostra dedicata a Domenico Gnoli, morto appena trentaseienne nel 1970. Con 100 opere realizzate tra il 1949 e il 1969 Milano offre così il proprio tributo a uno degli artisti italiani più enigmatici e originali del XXI secolo. Figlio d’arte ed enfant prodige, ottiene la sua prima personale a 17 anni alla galleria romana La Cassapanca. Non assimilabile ad alcun movimento e trasferitosi negli Stati Uniti, l’artista si scontra prima con l’astrattismo americano per poi innamorarsi della fotografia (soprattutto quella di Cecil Beaton). Il risultato è una rivoluzionaria attenzione ai particolari della vita quotidiana che diventano gli unici protagonisti della sua pittura. Per farlo si avvale di una tecnica inedita (un mix di sabbia e tempera/acrilico) che rende invisibili le pennellate e permette alla pittura di diventare lucida e omogenea come se l’opera fosse frutto di una emulsione fotografica.
È questa giocosa ambiguità a divenire uno dei tratti distintivi dell’artista, il quale ritrae la vita quotidiana nei suoi più minimi dettagli con talento rinascimentale e dimensioni monumentali. Le sue opere più belle appaiono surreali e lo spettatore è quasi portato a vedere nei particolari ritratti impossibili figure intere. Come spiegò il compianto Celant, ideatore della mostra, questa pittura grandiosa, precisa e materica è funzionale all’approccio documentario dell’artista, che mette “sullo stesso piano tutte le cose, naturali e artificiali, esprimendo una volontà egualitaria: la rivincita degli elementi insignificanti e squalificati dalla classifica dei valori: il basso e il secondario, l’accessorio e il trascurabile”.