Dopo i primi entusiasmi che accompagnarono la nascita della fotografia i nostri predecessori si accorsero che uno dei suoi grandi pregi, quello di catturare e conservare frammenti di realtà, ne era anche un limite perché il preservarne alcuni implicava la contemporanea esclusione di molti altri. Al fotografo restava il grande privilegio della scelta ma a questo si accompagnava il rimpianto di quanto andava perduto. È da queste riflessioni che nascono gli accostamenti di più immagini per creare effetti panoramici, le stereofotografie come anche, in ultima analisi, l’idea del reportage e del racconto fotografico. Cristina Meriggi appartiene a un’epoca più smaliziata che tuttavia ancora conserva intatto il desiderio di andare alla ricerca di un particolare dinamismo percettivo.
Per farlo, ha scelto di accostare in dittici le fotografie provenienti dal suo archivio (ma anche altre realizzate recentemente) immaginando legami sotterranei capaci di oltrepassare i confini del tempo e dello spazio – quelli che hanno caratterizzato lavori commissionati e scatti di ricerca personale, opere legate al mondo della moda e altre nate nell’ambito del reportage – per dare vita a nuove immagini cariche di una rinnovata vitalità.
Non si tratta di un’operazione meccanica
Non si tratta di un’operazione meccanica perché tutto nasce dalla constatazione che ogni fotografia, per rafforzarsi, non deve solo rispecchiarsi in sé stessa ma confrontarsi in un rapporto dialettico con una che le si opponga nella sua diversità. Per raggiungere i risultati che si è prefissa, Cristina Meriggi fa ricorso ai più diversi strumenti espressivi: talvolta sottolinea le analogie fra forme e colori, in altri casi stabilisce relazioni fra le riprese realizzate in bianconero alla compagnia Quelli di Grock e quelle che documentano a colori le ritualità indiane e in tal modo fa emergere il senso di un’affascinante teatralità sospesa.
È quella stessa colta nei movimenti delle nuotatrici quando attraversano l’acqua con un’eleganza che sa di metafore. Ogni tanto la fotografa si ferma davanti a un volto, a una postura, a una persona e le si avvicina per conoscerla meglio perché magari, come è in effetti successo, quello che a un primo sguardo sembrava un modello si rivela essere un lavavetri. Poi, improvvisamente, opera una rottura prospettica facendo irrompere diagonali che attraversano lo spazio oppure alterna con decisione vuoti e pieni con i primi che emergono nella purezza di un orizzonte che, dividendoli, unisce il cielo alla terra e i secondi che si vivacizzano di una umanità in perenne ricerca di chissà quali speranze. Roberto Mutti
HUMANS JUST HUMANS – ANTONIO MANCINELLI
«L’occhio vede ciò che la mente conosce» – Johann Wolfgang Goethe Una straordinaria celebrazione dell’umano, esplorato attraverso l’obiettivo di una fotografa che non si limita a catturare l’apparenza, ma si avventura nell’invisibile. Cristina Meriggi non ritrae volti, ma essenze; non corpi, ma metafore viventi. La sua lente diventa una finestra sull’anima, rivelando la fragile e potente verità dell’essere umano, sospesa tra l’eterno e il contingente.
In una danza tra classicismo e contemporaneità, l’autrice accosta figure idealizzate e levigate – reminiscenza della bellezza classica – a volti segnati dal tempo e dalle dure vicissitudini della vita, creando immagini che colgono l’intrinseca bellezza e la profonda vulnerabilità della condizione umana, attraverso una gamma di soggetti che, sebbene in apparenza contrastanti, si uniscono in un’unica, armoniosa sinfonia visiva. L’umiltà solenne dei soggetti più umili si pone, senza soluzione di continuità, accanto all’apollinea perfezione di modelli e attori, creando un mosaico visivo dove ogni frammento riflette la molteplicità dell’essere umano.
Gli scenari marini
Gli scenari marini che fanno da sfondo non sono semplici paesaggi, ma orizzonti metafisici, evocazioni dell’infinito. Il mare, con il suo moto perpetuo e la sua insondabile profondità, è simbolo dell’eterno fluire dell’esistenza, di quella ciclicità ineluttabile che Nietzsche definì «l’eterno ritorno». L’acqua, elemento primordiale e al tempo stesso etereo, scorre come filo conduttore di questa narrazione visiva, ricollegandosi all’aforisma di Eraclito: «tutto scorre, tutto si trasforma». Con la sua sensibilità quasi esoterica, l’autrice riesce a visualizzare un concetto cardine della filosofia ermetica: la coincidenza degli opposti. Ogni immagine è al tempo stesso rivelazione ed enigma, bellezza e crudezza, sacro e profano. Eppure, al di là delle sembianze, vi è un’unica verità sottesa: l’unità profonda che lega ogni umano in un destino comune, al di là di maschere sociali e identità contingenti.
Rifacendosi, consapevolmente o meno, allo spirito di The Family of Man, la mostra al MoMA di New York organizzata nel ’55 da Edward Steichen – mostra concepita come un manifesto per la pace e l’uguaglianza, espresse attraverso la fotografia umanista del dopoguerra -, l’autrice traccia un percorso frammentario, ma non meno potente, che ci invita a riflettere sull’ineffabile complessità dell’essere umani. Le sue foto non sono semplici ritratti, ma specchi interiori, attraverso i quali si può riscoprire il proprio riflesso, frammenti di sé, eco di emozioni condivise. In ogni volto, in ogni sguardo, c’è un frammento della nostra storia, un’eco delle nostre emozioni, un riflesso delle nostre aspirazioni e delle nostre paure. In questo senso, le opere sono profondamente democratiche nel senso più puro del termine, perché riguardano tutti: senza distinzione di classe, cultura o provenienza.
Humans Just Humans
Humans Just Humans si configura così come un’esplorazione estetica e filosofica, un invito raffinato a contemplare la fragilità e la bellezza dell’esistenza, nel suo eterno divenire e nella sua ineludibile verità. Le opere di Cristina creano ponti tra mondi e individui, ci parlano con un linguaggio universale, fatto di empatia e profonda compassione, che ci invita a riflettere sulla bellezza e la complessità dell’esistenza. Antonio Mancinelli.
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