Il 19 settembre 2021 è ricorso il quarantesimo anniversario della presentazione della prima collezione Memphis, avvenuta nella galleria Arc ‘74 di Brunella e Mario Godani in Corso Europa 2 a Milano. Erano i giorni del Salone del Mobile, e più di duemila persone si affollarono per partecipare a ciò che apparì subito come un evento epocale. Tutto era iniziato nel dicembre dell’anno prima, durante una cena a casa di Ettore Sottsass. La serata probabilmente era fredda e un disco di Bob Dylan veniva suonato a ripetizione mentre Aldo Cibic, Matteo Thun, Marco Zanini e Martine Bedin decidevano di fondare un collettivo di design dirompente. Non che il design fosse nato da molto: erano sì e no quarant’anni che si parlava di progetto industriale. Ma l’asciutto stile modernista era approdato agli anni Settanta in una declinazione minimalista e monocroma, passando quasi indenne da più di una rivoluzione culturale. Alcuni segnali di riottosità al ‘buon design’ erano arrivati, naturalmente. Ma era il momento di rompere con il passato in modo radicale, con un’operazione che partiva direttamente dal cuore del made in Italy e dalla visione di progettisti già ampiamente affermati. Al gruppo originario si aggiunsero, nel tempo, Alessandro Mendini, Andrea Branzi, Nathalie du Pasquier, Michael Graves, Hans Hollein, Arata Isozaki, Shirō Kuramata, Javier Mariscal e George Sowden.
Il collettivo prese il nome di Memphis perché quella sera l’LP di Bob Dylan si inceppava su una canzone che citava la città natale di Elvis Presley. E Sottsass, che trattava le sincronie e i misteri con la giusta dose di importanza, non perse l’occasione di usare un nome pop che originava da un’antica città egizia. Memphis era involontariamente perfetto. Perchè il nuovo design doveva affondare le mani nella cultura popolare, non doveva essere colto, non doveva essere prezioso e non doveva celebrare le competenze artigianali o industriali del made in Italy. Il nuovo design al contrario doveva essere invadente e sacrilego ma rituale. Esattamente come la cultura di massa. Sottsass e il suo gruppo volevano esplorare una progettualità indicibile, anti borghese e in odore di nichilismo e estetica post-punk. In questo clima nacquero pezzi del tutto inediti, come la libreria Carlton.
Carlton di Memphis: design contro le convenzioni
A guardarla ancora oggi è evidentemente un pezzo ‘contro’. È contro la funzionalità, contro i materiali pregiati o naturali, contro le logiche domestiche, contro un design ‘benpensante’ che vuole un oggetto asservito a una quotidianità passiva, sommamente leggibile. Carlton è un oggetto ritualizzante, che parla a voce alta. Il materiale è il laminato plastico, un materiale senza storia e artificiale in grado di diventare una superficie parlante e iperdecorativa. I colori sono accostati in modo apparentemente casuale, le geometrie invece di ordinare contribuiscono a creare disagio. Le reazioni del pubblico alla sua esposizione alla galleria Arc ’74 di Milano nel settembre del 1981 furono entusiaste e Carlton venne pubblicata su tutte le riviste di tendenze del pianeta e presto fece parte di molte collezioni museali. Alcuni, come David Bowie, dissero poi che il design contemporaneo deve tutto alla Carlton e a Memphis. Oggi l’eredità del collettivo è portata avanti da Memphis Milano, che riedita i pezzi disegnati tra il 1981 e il 1988, e da Post Design, che propone nuove collezioni di designer già appartenenti al gruppo come Nathalie Du Pasquier, George Sowden, Masanori Umeda e lo stesso Ettore Sottsass.
Elisa Massoni