Digitale. Digitale. E ancora digitale. Almeno da un lustro a questa parte è diventata la parola maggiormente pronunciata dagli analisti, dai sociologi, dagli economisti, dagli imprenditori, dai giornalisti, eccetera eccetera. Alzi la mano, infatti, chi non ha mai sentito parlare di rivoluzione digitale, o di rinascimento digitale, così come di competenze digitali, arte digitale, investimenti nel digitale, e così via.
Anche se il sintagma più interessante sembra essere quello di artigiani digitali. Talmente importante da spingere Italia Lavoro (S.p.A. interamente partecipata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, che si occupa di politiche del lavoro e occupazione) a redigere, qualche anno fa, il “Manifesto Makers”, laddove makers è il termine inglese scelto per sostituire quello di artigiano digitale.
Il rapporto con la tecnologia è sempre stato parte integrante della vita dell’uomo, sin dalla scoperta del fuoco. È tecnologico, infatti, – per definizione – , tutto ciò che può essere funzionale alla soluzione di problemi pratici. A partire da questo punto, si capisce anche quanto sia fuorviante e fuori luogo la diatriba, spesso messa in piedi, tra amici e nemici della tecnologia. Tutto dipende dall’approccio con cui si affrontano le novità, un approccio critico è sempre scevro di rischi. Ma se il rapporto dell’uomo con la tecnologia è intrinseco, perché oggi si parla tanto di digitale? Semplicemente perché siamo sul confine, sulla linea di passaggio da un’era a un’altra, ed è proprio in questi precisi istanti della storia degli uomini, che le riflessioni fioriscono.
Ma facciamo un po’ di chiarezza. Cosa significa digitale? Banalmente (etimologicamente), è digitale tutto ciò che ha a che fare con le dita. Con le dita, difatti, si batte sulla tastiera dei pc. E si batte per digitare, scrivere, fondamentalmente, del codice, stringhe di codice, algoritmi. Un linguaggio che la macchina è capace di comprendere e che gli fa eseguire dei comandi, i quali rendono, come output, un prodotto grafico, visivo, a volte anche multimediale (immagini, testo, musica, video), interattivo, capace di rispondere agli input dell’utente che dialoga con l’interfaccia. Un mezzo di espressione, insomma, potentissimo.
Abbiamo detto che si ha a che fare con le dita, dunque, con le mani. Mani, prodotti, espressione. Il nesso con l’artigianato si fa evidente. Nella mentalità comune, forse, i due mondi paiono distanti. Ma in realtà non c’è molta differenza tra un vecchio artigiano ed un artigiano 2.0: sviluppare software, o siti web, o applicazioni, o installazioni interattive, o interfacce digitali e modelli 3D è un processo artigianale per sua natura intrinseca. Si tratta di un processo che richiede un’elevata personalizzazione, senso estetico e creatività. Un processo mai standardizzabile, né automatizzabile, come lo sono i processi industriali.
Così come le produzioni artigianali, poi, lo sviluppo di soluzioni digitali richiede un continuo adeguamento degli strumenti utilizzati ai contesti di riferimento, specifici ed unici. Un piano di comunicazione digitale è sempre ad hoc, sempre su misura, ad esempio.
Un altro concetto che avvicina i due poli è quello di riparazione/manutenzione. Produrre e manutenere/riparare un oggetto o un prodotto digitale sono la stessa cosa. Per poterlo fare occorre una visione progettuale, che colga le finalità e le logiche che vigono dietro un artefatto. Cosa che non accade nel mondo dell’industria.
Oltre ad avere una visione progettuale, il maker, così come il vecchio artigiano, deve saper comunicare. Il maker e l’artigiano tradizionale aspirano a raccontare delle storie, attraverso i loro prodotti. Devono, cioè, essere in grado di fare storytelling.
Per far tutto ciò, come in ogni altra professione, lo studio e l’aggiornamento continuo sono alla base del successo. È impensabile imparare una tecnica e sperare che questa sia funzionale, per sempre, al raggiungimento dei propri scopi.
Questa vicinanza delle cosiddette nuove professioni digitali con il mondo dell’artigianato tradizionale, è la principale responsabile dell’attrazione che esercitano le nuove tecnologie sui giovani e che, quindi, potrebbe dare nuova linfa vitale alla nostra economia ed alle prospettive occupazionali in crisi. Dai sondaggi è sempre emerso che quello che i giovani si aspettano dal mestiere della propria vita sia un elevato tasso di creatività ed un’elevata soddisfazione nell’esercitarlo. Quello che piace fare ai giovani è innovare e condividere conoscenze ed esperienze. Quello che permetteva di fare il vecchio artigianato, quello che permette di fare il nuovo artigianato digitale.
Piero Di Cuollo
Via Italiachecambia