La Reggia di Venaria è stata riaperta al pubblico diciassette anni fa, grazie a un progetto di recupero iniziato nel 1997. Un intervento importante che ha restituito alla cittadinanza un inestimabile patrimonio di bellezza artistica, architettonica e naturalistica, fondamentale testimonianza dell’evoluzione dei linguaggi progettuali dal tardo manierismo alla contemporaneità.  

La Reggia di Venaria, la sua storia

Una storia che ebbe inizio alla fine del 500, quando i Savoia decisero di costellare i dintorni della città di Torino, capitale del ducato, con un sistema di residenze che coniugava la necessità di mantenere il controllo del territorio e delle sue acque, di testimoniare il potere e la magnificenza della dinastia, creando luoghi destinati al loisir e alla caccia, l’attività più amata dai nobili per secoli e considerata come educazione alla guerra in tempo di pace.

La Reggia di Venaria è stata il completamento di quella che in seguito fu denominata la “corona di delizie”. La sua realizzazione avvenne in più fasi con una serie di integrazioni e successive sovrapposizioni che nel corso dei secoli hanno dato vita a un palazzo reale con meravigliosi giardini. Il duca Carlo Emanuele II la volle per lasciare la sua impronta in una zona ancora sgombra dalle residenze volute dai suoi predecessori. Della sua progettazione incaricò nel 1658 l’architetto di corte Amedeo di Castellamonte. Questi plasmò l’antico villaggio di origine medievale, Altessano Superiore, ribattezzato Venaria Reale, rendendolo parte integrante del suo progetto. 

Il complesso

Il complesso, di grandioso impatto scenografico, coordinava lungo un asse di circa due chilometri il borgo, il palazzo e i giardini raggiungendo il suo culmine nel Tempio dedicato a Diana, dea della caccia, unendo indissolubilmente questi elementi in un unicum. Realizzato secondo i canoni tardomanieristi, il complesso prevedeva un ingresso tramite la Torre dell’orologio, la Corte d’Onore con la Fontana del Cervo, un corpo centrale inizialmente a due livelli, poi elevati a quattro, edifici di servizio separati e destinati all’attività venatoria (scuderie, alloggi per i cavalieri e gli scudieri e canili) e una citroniera posta dietro le scuderie.

La dimora e i giardini

Al piano nobile della dimora, gli appartamenti privati dei duchi intorno ai due cortili a tenaglia e la grandiosa Sala di Diana, fulcro dell’intero complesso, riccamente decorata, con pareti scandite da un complesso di fasce, cornici e tele con ritratti equestri e momenti di caccia e una volta con elementi a stucco in cui si inseriscono affreschi. Seppure a lato, i giardini articolati su due livelli svolgevano un ruolo centrale nella definizione dell’immagine complessiva del luogo. Pur essendo contemporanei a quelli progettati da Le Nôtre a Vaux-le-Vicomte, avevano ancora un impianto all’italiana, nonostante si dilatassero lungo l’asse centrale, per i tempi una novità. 

Il primo intervento di recupero e ampliamento

In seguito ai danni bellici subiti dalla residenza a opera dei francesi, il nuovo architetto di casa Savoia, Michelangelo Garove, fu chiamato nel 1699 da Vittorio Amedeo II per rinnovare la Reggia di Diana. Non era più consona alle ispirazioni di un duca che ambiva a diventare re. Il suo intervento ebbe un effetto dirompente. Sulla base del gusto architettonico d’oltralpe (Luigi XIV si era insediato a Versailles nel 1682 con la sua corte), i giardini vennero completamente smantellati e ridisegnati alla francese, il Tempio di Diana demolito per non interrompere la visione dell’infinito e i suoi pezzi destinati ad altro.

Una nuova concezione della Reggia per celebrare la grandezza dei Savoia

Un nuovo corpo di fabbrica (galleria) con due padiglioni adiacenti venne innestato sul lato sud ovest del palazzo di Castellamonte, mediante demolizioni progressive che interessarono anche la Citroniera e la Fontana del Cervo, e un altro corpo con due padiglioni era previsto sul lato sud-est. In questo modo la seicentesca Reggia di Diana veniva inglobata nel nuovo palazzo divenendone il corpo centrale. Gli interni vennero ridisegnati sulla base di nuovi criteri distributivi e gli appartamenti riorganizzati secondo il sistema francese a padiglione. Divennero così ampi e sontuosi per accogliere una vita di corte regolata da un rigido e spettacolare protocollo che prevedeva il continuo movimento in parata da una parte all’altra della residenza anche per assolvere alle funzioni più semplici. Nella facciata, inoltre, l’intonaco bianco venne sostituito da mattoni a vista.

L’incarico a Filippo Juvarra

L’intervento di Garove, tuttavia, rimase parzialmente incompiuto a causa degli eventi bellici culminati con l’assedio di Torino nel 1706. La galleria sud est non venne realizzata e la facciata della reggia di Diana non fu sostituita, conservando il fronte spezzato. Nel 1713 Vittorio Amedeo II, divenuto re di Sicilia prima e di Sardegna poi, incaricò l’architetto Filippo Juvarra di portare a compimento quella che a tutti gli effetti era la dimora di un re, la Venaria Reale.

L’intervento di Juvarra sulla Reggia di Venaria

Juvarra ideò una nuova piazza antistante il palazzo dove costruì la chiesa di Sant’Uberto a pianta centrale (ma non ne completò la cupola) ed edifici che vengono annoverati tra i suoi capolavori: la Citroniera, la Scuderia Grande e la Galleria Grande iniziata da Garove, ma completamente ripensata sotto il profilo decorativo. Ne costruì la volta e ne modificò le pareti costruendo grandi arcate aperte verso la Corte d’Onore e il giardino, illuminandola di luce.

Il lavoro a completamento, di Benedetto Alfieri

Ampliò i giardini e ottenne così quel “qualcosa di maestoso” che il re aveva chiesto a suo tempo al Garove. Toccò a Benedetto Alfieri, incaricato nel 1739 da Carlo Emanuele III, legare in un insieme unitario i vari edifici collegandoli alla Reggia, creando una galleria tra la chiesa e la Citroniera (Galleria Alfieriana con il Rondò), le rimesse per le carrozze e nuove scuderie, un maneggio e la Torre del Belvedere, il punto di rotazione tra palazzo e scuderie. 

La Reggia di Diana perse la sua centralità, la vita di corte si spostò nei grandi padiglioni con al centro la Galleria Grande riccamente decorata. L’asse prioritario divenne quello nord sud poiché in epoca rococò si preferivano visuali più ridotte rispetto all’infinito. Anche Alfieri mise mano ai giardini, facendo perdere ogni traccia dei canoni italiani. Negli anni successivi avvennero solo ridistribuzioni degli spazi interni fino a che la Reggia venne abbandonata in favore della Palazzina di Stupinigi.

La Reggia della Venaria trasformata in caserma per due secoli. Poi l’abbandono e infine il recupero

In seguito all’invasione francese di fine 700, il complesso fu trasformato in una caserma, gli arredi rimasti scomparvero e i giardini divennero un campo per esercitazioni militari. Questa destinazione rimase fino alla fine della Seconda guerra mondiale cui seguirono anni di abbandono, di degrado e rovina fino al gennaio 1997. Proprio in quell’anno ebbero inizio i lavori del più importante progetto europeo per il restauro e la valorizzazione di un bene culturale e del suo territorio, che hanno reso la Reggia di Venaria un luogo dove poter tornare ad ammirare sontuosi capolavori della storia dell’arte e del giardino ma anche dove trascorrere momenti di svago oppure partecipare a eventi e iniziative di alto valore culturale.

Un enorme lavoro di ricerca e un recupero rispettoso della sua storia

La principale istanza, considerato lo stato di degrado nel quale versava la Reggia di Venaria, è stata quella di conciliare la ricerca estetica di restituzione e conservazione con quella storica di conoscenza del bene. Il restauro è quindi stato condotto nel rispetto delle architetture originarie e delle peculiarità storiche, artistiche e architettoniche dei vari fabbricati. Si è optato per la ricostruzione della materia mancante nelle parti ripetitive al fine di restituire una visione formale di insieme che permettesse una corretta lettura storico artistica dei manufatti e delle loro trasformazioni. Questo rigore filologico è andato di pari passo con una libertà interpretativa che puntava all’evocazione delle atmosfere originali e non solo a una mera riproduzione degli ambienti, nel tentativo di recuperare il genius loci per aprire questo luogo magico alla contemporaneità.

Marco Miglio

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