Nigel Dunnett è una delle voci più autorevoli nel modo della progettazione dei paesaggi urbani sostenibili, in sintonia con la natura e con un forte impatto estetico e professore di Planting Design, Vegetation Technology & Urban Horticulture presso l’Università di Sheffield. Nigel Dunnett ha raccontato a Villegiardini la filosofia che sottende il suo impegno in questo campo.
Il suo lavoro condensa una pluralità di concetti complessi nel mondo della progettazione del paesaggio, non solo urbano, quali il planting design, l’ecologia, il benessere delle persone, il cambiamento climatico, tanto per citarne solo alcuni: come è nato il suo interesse per loro e come li ha combinati nel suo modo di lavorare?
Non ho una vera e propria formazione nella progettazione del paesaggio, ho un background da ecologista, ma fin da piccolo i giardini e le piante mi hanno appassionato e ho imparato i principi della progettazione da solo, con la pratica, studiando e visitando quanti più giardini potessi. Avendo anche trascorso molto tempo negli habitat naturali – prati, boschi, zone umide, non solo nel Regno Unito – ne ho appreso il funzionamento osservandoli da vicino. Ho un approccio ecologico nella progettazione dei giardini, perché credo che rappresentino il miglior modo di creare nuovi ecosistemi.
Ho anche concentrato il mio interesse sui rain garden e i giardini pensili (o su soletta) quando ho visto che i loro progettisti ottenevano risultati funzionali, ma privi di una minima valenza estetica. Ho individuato, quindi, una lacuna nel mercato, rendendomi conto che in questo campo un approccio ecologico e creativo, che tenesse anche in considerazione i cambiamenti climatici, avrebbe potuto portare a risultati sorprendenti non ugualmente ottenibili in spazi verdi più convenzionali, quali parchi e giardini. Non mi sono tanto concentrato sull’aspetto scientifico di quello che si definisce naturalistic planting ma su quello creativo, sottolineando l’importanza della componente artistica dei paesaggi che si ispirano a quelli naturali e dei benefici ambientali. È in questo modo che possiamo catturare l’immaginazione delle persone e raggiungere le loro emozioni. L’ho definito un ‘naturalismo potenziato’ (enhanced naturalism).
C’è un aspetto del suo lavoro con le piante che prevale sugli altri?
Può sembrare strano, ma il mio approccio è ‘people-first’: il planting design e i paesaggi che creo devono innanzitutto appagare le persone, che devono amarli, devono volerne di più e dire, “sono la cosa più incredibile che abbia mai visto!”. È questo il modo per far diventare popolare un giardino o un paesaggio ecologico.
Se non lo sono ancora diventati è perché le persone coinvolte nelle infrastrutture verdi o nella ‘natura nelle città’ non la pensano in questo modo, badando solo al risultato pratico, in termini di beneficio ambientale, e trascurando quello estetico. Non credo sia corretto affermare che le persone debbano essere educate, il loro apprezzamento deve essere l’obiettivo del nostro lavoro. Il ‘people first’ può aiutare a risolvere su larga scala i problemi relativi al cambiamento climatico e all’emergenza riguardante la biodiversità: può far sì che il paesaggio ecologico sia quello la gente vuole vedere e avere intorno.
Quando lavora fuori sede, conduce anche studi sulle piante spontanee e/o endemiche della zona?
Il cambiamento climatico e le condizioni molto artificiali e disturbate delle nostre città non rendono l’argomento “usare solo piante native della zona” così forte; anche se cerco di incorporarle quando possibile. Per me è fondamentale che i progetti si adattino e rispettino il carattere del paesaggio e della vegetazione locale. Per esempio, in un contesto britannico non ho molto interesse a realizzare un giardino tropicale o a cercare di lavorare con una comunità di piante del Sud Africa, ma cerco di realizzare qualcosa che sia più adatto alla zona climatica in cui mi trovo.
Nella sua carriera ha condotto interventi diversi per fruibilità e funzione: ad esempio Olympic Park, la città di Sheffield con il progetto ‘Grey to Green’, i giardini di Trentham. Ci può raccontare i concetti alla base di questi progetti?
Il mio metodo nel creare giardini e paesaggi è lavorare con una ‘natura potenziata’, che cattura l’essenza di una composizione naturale e ne fa una versione astratta dalla maggiore componente estetica. Voglio anche creare esperienze coinvolgenti per le persone, che devono essere circondate dalla natura e sentirsene parte, non limitarsi a guardarla, devono sentirne il profumo, il movimento e percepire le altre forme di vita che vivono in quello spazio. Per Olympic Park di Londra (dove ero parte di un grande team multidisciplinare) ho usato questa idea. Non è il solito parco inglese, con prati, alberi e aiuole, è per lo più bosco, meadow e zona umida, con isole di prati al suo interno, pensate proprio per essere utilizzate dalle persone. Allo stesso modo, a Sheffield, lo spazio sottratto alle auto è sostituito da giardini lineari con al centro i marciapiedi, con piante su ogni lato, creando di nuovo quell’esperienza coinvolgente. A Trentham, invece, i sentieri sinuosi corrono attraverso le nuove aree piantate così che le persone si sentano circondate da un paesaggio naturalistico che cambia.
Può parlarci del suo giardino privato? Lo usa anche come campo di sperimentazione?
Il mio è un giardino di 0,5 ettari che si trova in una vecchia cava ed è composto da sottili strati di terreno. È in forte pendenza verso l’alto, lontano dalla casa, ed esposto a nord: quindi ha condizioni ecologiche abbastanza specifiche. L’ho organizzato in una serie di spazi più piccoli, ognuno dei quali potrebbe essere un piccolo giardino a sé, tutti collegati da sentieri curvilinei che conducono dolcemente su per il pendio. Ci sono molti posti per sedersi e divertirsi – mia moglie Marta ha insistito dicendo che questo è ciò che il giardino dovrebbe essere: un luogo dedito al relax e al divertimento e non solo un posto per coltivare piante. Vicino alla casa ho ideato delle piantagioni basate sul colore. Più lontano dall’abitazione invece ho diverse tipologie di meadow e un bosco di querce. In generale lascio che le piante spontanee del luogo entrino nel giardino. Creo spazi all’interno di questa ecologia naturale.
Nel 2021 è stato protagonista dell’undicesima edizione del “Landscape Festival – I Maestri del Paesaggio”, nella Piazza Vecchia di Bergamo. È stato difficile vincere la sfida di un giardino effimero con buone performance con piante in vaso, nell’arco di tre settimane nel momento del cambio di stagione?
Sì, questa è stata una grande sfida. Il mio concetto chiave è creare l’impressione che l’intera piazza sia stata riempita del più bello, esuberante e colorato prato di fiori selvatici, come se la natura avesse preso il sopravvento, per poi ritagliare spazi e percorsi al suo interno, in modo che le persone possano goderselo e avere un’esperienza immersiva. Per alzare il punto di osservazione e creare movimento costruiremo piccole colline con dei pallet. Era difficile fare previsioni definitive su quali piante sarebbero state in fiore per tutto il tempo, ma il progetto prevedeva di avere grandi distese di rosa e blu e giallo e oro, insieme a molte belle graminacee. Spero che questa trasformazione naturale abbia fatto riflettere su un modo alternativo di pensare le nostre città, i nostri spazi e i nostri giardini. Comprensibilmente, dopo la pandemia, i proprietari dei bar e dei ristoranti intorno alla piazza hanno voluto prendere più spazio del solito quest’anno, e c’è stata una negoziazione sullo spazio da dedicare alla natura. Il conflitto tra l’economia e la necessità di portare più natura per affrontare le grandi sfide che stiamo vivendo è un parallelismo interessante con il mondo reale; quello raggiunto è un buon compromesso.
Sappiamo che lei fa parte del team vincitore del masterplan per il recupero dello scalo di Porta Romana a Milano. Può anticiparci qualcosa?
L’aspetto più eccitante del progetto di Porta Romana è il modo in cui la natura e le persone possono unirsi. L’elemento centrale è un grande meadow che collega entrambi i lati della linea ferroviaria attraversandola e passandoci sopra. È una grande area di verde naturale, che dà respiro alla biodiversità e alle persone: una passerella sopraelevata, una sorta di High Line, ma con alberi e foreste.
Come riesce a conciliare il suo incarico di professore con il lavoro di landscape designer?
La mia vita si destreggia tra il lavoro sui progetti e quello di professore, ma è tutto collegato. Faccio ricerca su come creare paesaggi e giardini belli e sostenibili e come mantenerli, in particolare per gli spazi pubblici urbani, e applico molte di queste ricerche nei progetti di design in cui sono coinvolto. Viceversa, il mio insegnamento può attingere da tutta questa esperienza con i progetti reali. In un campo come quello dell’architettura del paesaggio, sento che è quasi un dovere degli accademici e dei professori cercare di fare la differenza, di contribuire al cambiamento, non solo parlarne! Avere un impatto, vedere il mio lavoro di professore che si traduce in progetti reali di successo, che piacciono alle persone, è molto soddisfacente.
©Villegiardini. Riproduzione riservata
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