La casa, il giardino e l’atelier dell’artista Diana Baylon a Fiesole sono stati per lei luogo d’intimità familiare e ritiro di lavoro in mezzo alla natura. Una prospettiva solitaria ma aperta al contempo ai più grandi artisti italiani del secondo Novecento: da Alberto Burri a Lucio Fontana.
Se una casa non avesse le fondamenta, se davvero fosse possibile edificarne una in modo contrario alla legge di gravità e la cui principale caratteristica fosse la sospensione… ebbene, quella sarebbe la casa di Diana Baylon. E’ facile, infatti, sentirsi a mezz’aria visitando la vecchia colonica in cui scelse di vivere, adattandola ai suoi gusti e alle sue esigenze estetiche ed artistiche. E non perché la casa, di cui mi appresto a raccontare, non abbia forza in termini di memoria o intrinseco valore artistico e culturale, ma per la natura stessa della sua proprietaria: più tesa verso l’assolutezza e la pulizia delle forme che verso qualsiasi altro aspetto dell’esistenza. La propensione in questo senso fu tale, da condizionare tutto quello di cui lei si circondava.
Artisticamente Diana Baylon si connotò per una natura tendenzialmente poliedrica: scultrice di fama, pittrice, ma anche, più riservatamente, poetessa e scrittrice (sono moltissime le pagine dei diari che compilava ogni giorno e che ancora attendono un adeguato riordino). Era figlia di un aviatore e prestissimo, oltre al volo aereo appreso sotto la guida del padre, si abbandonò ad un altro volo, quello totalmente autodidatta degli studi d’arte. Le sue opere degli esordi portano la firma ‘Matteo’, perché gli anni Quaranta italiani non erano troppo facili per una donna che volesse essere artista. Subito dopo un primo matrimonio da cui ebbe due figli, ma che le imponeva uno stile troppo tradizionale per non dettarle insofferenza, più causalmente che casualmente, divenne la compagna e poi la moglie di Beppe Baylon, il numero uno dell’aeronautica militare italiana della seconda guerra. Un’unione che durerà oltre sessanta anni e che può, a ragione, dirsi un ritorno alla sua prima infanzia aerea.
L’amore per il volo ne influenzò la vita e il lavoro artistico: l’ampiezza degli orizzonti, il candore della luce celeste la spinsero inevitabilmente alla predilezione per la pulizia estrema delle forme e per la leggerezza, quella stessa che attribuisce oggi una tale atmosfera alla casa da farla apparire a chi arriva quasi priva di fondamenta.
Firenze era allora un crocevia di artisti ed intellettuali di ogni sorta e Diana era in mezzo a loro, con una carriera in pochi anni decollata internazionalmente, fino al punto che, nell’estate 1969, a Spoleto, al Festival dei Due Mondi, il parigino Studio G30 con la Galleria Inquadrature la esposero nella collettiva Maitres et jeunes d’aujourd’hui, tra i grandi maestri del ‘900. Tra gli altri, con Alberto Burri, Pablo Picasso, Jean Dubuffet e Lucio Fontana, suo grande amico.
Proprio in quegli anni, all’apice della carriera, Diana virò bruscamente deliberando di ritirarsi in campagna, contraria alle limitazioni del mercato dell’arte e desiderosa di dedicarsi solo a creare. Comprò, così, col marito Beppe la casa oltre Fiesole, che era poco più di un rudere in una zona da cui gli antichi mezzadri stavano ormai scappando, e si buttò nei lavori di muratura, effettuati personalmente per crearsi un habitat totalmente adatto. Da quel momento, solo alcuni dei più preziosi sodalizi artistici, come quello con Lucio Fontana, furono per lei degni di attenzione. A Fontana, frequente ospite della casa, dovette forse l’ampliarsi della sua esperienza con le superfici metalliche, amate moltissimo proprio per la loro aerea natura e la spiccata capacità di riflettere la luce.
L’impronta sulla propria casa di questa artista delle linee pure e geometriche e della luce originaria, proprio quella visibile bene con gli occhi socchiusi durante un volo, sono ancora così radicali, seppure a distanza già di qualche anno dalla sua morte (2013), che, quando suo figlio, Aldo Ricci, scomodo scrittore, apre la porta venendomi incontro, mi appare come sia lì solo ospite di passaggio. Insieme a lui l’assistente, Sabrina de Gaetano, che mi suggerisce interessanti piste per scoprire una Baylon poetessa attenta al tema della spiritualità, e un grosso gatto nero, propenso più ad impiegare intere giornate sul tetto che a far altro.
La casa è elegante e curata, di un’essenzialità dal tratto femminile quasi celato nel prevalere di un gusto scarno, come del resto le opere di questa artista eccellente. Molti gli studi, un paio di grandi saloni, posti accanto ad una tipica cucina quadrata da colonica toscana, dove appena si mette piede, si ha la sensazione che Diana Baylon vi abbia poco sostato, in nome, certo, della sua dedizione ad un’opera artistica talmente preponderante che tutto il resto quasi si scorda.