We call it Africa in mostra a Milano
È stata inaugurata la mostra We call it Africa – Artisti dall’Africa Subsahariana nella splendida cornice di Officine dell’immagine a Milano.
La mostra, che terminerà il 2 aprile, è una collettiva curata da Silvia Cirelli: il tema è il complesso, spesso contradditorio, panorama artistico dell’Africa Subsahariana. Il compito è quello di esplorare le diverse anime del continente nero, navigando tra gli universi culturali che mettono in comunicazione l’arte e la società contemporanea: e la chiave polemica si inserisce nel titolo, che si sofferma con tono provocatorio sulla banalizzazione (spesso ghettizzante) della scena creativa.
Sono stati chiamati per la prima volta in Italia Dimitri Fagbohoun (dal Benin), Bronwyn Katz (dal Sudafrica), Marcia Kure (dalla Nigeria) e Maurice Mbikayi (dalla Repubblica Democratica del Congo), tutti protagonisti di importanti rappresentazioni internazionali come il Luxembourg Art Prize.
La struttura della mostra
L’esposizione sarà aperta dai lavori di Mbikayi, la cui arte ruota attorno all’impatto della tecnologia nel tessuto sociale africano, senza dimenticare la cupa realtà delle discariche di rifiuti elettronici. Installazioni realizzate interamente con materiali di riciclo tecnologico sono affiancate da opere che portano all’attenzione il tema del dandismo nella quotidianità congolese, un fenomeno diffuso che adotta, oltre all’eccentricità nell’abbigliamento, anche uno specifico modello etico.
A seguire ci saranno i lavori della Kure, che indaga gli effetti del post-colonialismo: la frammentarietà identitaria si riflette infatti sull’arte nigeriana, in una continua tensione linguistica (ma anche concettuale) della ricerca identitaria dalla natura inquieta.
Le opere di Fagbohoun, che si muovono fra scultura, video e installazioni, si concentrano su temi come il ricordo, la politica, la religione e la dimensione poetica dell’esistenza. Fil rouge è la vulnerabilità dell’essere umano nei suoi processi di creazione e distruzione.
La mostra si chiude con la giovane Katz (classe ‘93), la cui cifra stilistica sottolinea l’importanza della terra come realtà depositaria, oltre che custode della memoria culturale sudafricana.
Ciò che emerge da queste opere è una forte trama estetica politicizzata che svela con urgenza – ma senza retorica – la necessità di far diventare questo universo privato africano un bene collettivo.